La qualità del lavoro educativo di un’équipe – che sia quella degli animatori dell’Estate Ragazzi, dei volontari del Servizio Civile, o degli operatori in una casa famiglia – si gioca in larga parte sulla qualità delle relazioni interne al gruppo. Il “team building” non è un’attività opzionale o un momento ludico fine a sé stesso: è un processo pedagogico essenziale per rendere efficace, coerente e credibile l’azione educativa. In questo contesto, la comunicazione gioca un ruolo centrale.
Maria Montessori affermava che “l’educazione è un aiuto alla vita”. Questo aiuto non può essere offerto da singoli educatori isolati, ma da un gruppo coeso e comunicativo. La comunicazione, secondo il modello pragmatico elaborato da Paul Watzlawick, non è mai neutra: “non si può non comunicare”. Ogni gesto, ogni silenzio, ogni sguardo comunica qualcosa al gruppo e ai ragazzi.
Un’équipe educativa che non comunica o comunica male genera confusione, ambiguità e talvolta anche sfiducia nei destinatari. La comunicazione efficace non è solo scambio di informazioni, ma costruzione di significato condiviso, e questo è ancora più vero nei contesti educativi.
Lev Vygotskij ha sottolineato l’importanza della relazione sociale nello sviluppo cognitivo ed emotivo. La cosiddetta “zona di sviluppo prossimale” è raggiungibile solo attraverso l’interazione con altri. In questo senso, il gruppo degli animatori o dei volontari non è semplicemente un mezzo per raggiungere i ragazzi, ma è esso stesso uno spazio educativo.
Quando un gruppo di educatori funziona bene, si crea un clima relazionale che i ragazzi respirano e interiorizzano. Se invece il gruppo è disgregato, se ci sono tensioni irrisolte, silenzi carichi, esclusioni o sottogruppi chiusi, tutto questo si riflette in modo diretto sull’esperienza educativa.
Come ricorda Franco Cambi, uno dei maggiori pedagogisti contemporanei, “l’educazione è sempre mediazione di senso”: ma perché questa mediazione avvenga, occorre un contesto relazionale che sia trasparente, riconoscente e dialogico.
Il pedagogista Daniele Novara, fondatore del CPP (Centro Psicopedagogico per l’Educazione e la Gestione dei Conflitti), insiste molto sulla distinzione tra comunicazione reattiva e comunicazione generativa. La prima si limita a rispondere agli stimoli (spesso con aggressività o chiusura), la seconda costruisce ponti, immagina soluzioni, mette in comune vissuti.
Comunicare bene in un gruppo educativo significa:
Significa anche saper gestire i conflitti in modo non violento, come suggerisce Marshall Rosenberg con il suo modello di Comunicazione Non Violenta (CNV): osservare senza giudicare, esprimere i propri sentimenti, dichiarare i propri bisogni, formulare richieste chiare.
Oratorio:
Un animatore che critica un altro davanti ai ragazzi: mina la credibilità dell’équipe.
Coordinatori che non condividono le informazioni importanti (orari, cambi di programma): si genera confusione e sfiducia.
Silenzi tra membri del gruppo a causa di rancori o divergenze non affrontate: aumenta la tensione e si creano sottogruppi.
Casa Famiglia:
Volontari che non segnalano in modo tempestivo un disagio osservato in un ragazzo: il gruppo educativo non può intervenire in tempo.
Operatori che evitano il confronto diretto e parlano alle spalle: crea un clima di sospetto.
Estate Ragazzi:
Animatori che si isolano con il proprio “gruppetto di amici”: il gruppo educativo perde compattezza e i ragazzi se ne accorgono.
Riunioni in cui parlano solo i “soliti”, e gli altri si sentono esclusi: si inibisce la partecipazione attiva e creativa.
Oratorio:
Inizio di ogni giornata con un breve momento di condivisione tra animatori: serve a sintonizzarsi e prevenire malintesi.
Verifiche settimanali per dare spazio ai vissuti e correggere insieme ciò che non funziona.
Casa Famiglia:
Diario condiviso (cartaceo o digitale) per segnalare eventi, umori, situazioni critiche vissute dai ragazzi.
Momenti periodici di supervisione con una figura esterna per aiutare il gruppo a elaborare i conflitti.
Estate Ragazzi:
Piccole attività di team building ogni settimana (giochi cooperativi, uscite, momenti spirituali condivisi).
Cura nella comunicazione visiva (cartelloni, messaggi WhatsApp, planning): chiarezza e accessibilità evitano stress e fraintendimenti.
Ogni équipe educativa deve avere coscienza di una verità fondamentale: quando il gruppo si divide, l’animazione si spegne. I ragazzi – specialmente quelli più fragili o feriti – percepiscono subito se tra gli educatori c’è armonia o tensione. E questo incide sulla loro fiducia, sulla loro apertura, sulla loro voglia di mettersi in gioco.
Le divisioni interne non sono solo un problema “organizzativo”: sono un vulnus pedagogico. Rompere la comunicazione nel gruppo significa togliere coerenza all’esperienza educativa, che si regge sull’accordo tra chi educa.
È dovere di ogni membro del gruppo coltivare la comunicazione, favorire la trasparenza, non chiudersi nel non-detto. A volte basta una parola fuori posto per far crollare la fiducia. Altre volte basta una parola giusta, detta con sincerità, per ricostruirla.
Team building e comunicazione non sono compiti tecnici, ma esperienze profondamente umane e spirituali. Come diceva Don Bosco: “La carità sia comunicativa e paziente”. Se vogliamo essere educatori nel suo stile, dobbiamo saperci volere bene anche quando non siamo d’accordo. E questo richiede esercizio, pazienza, coraggio.
Una comunità educativa che comunica bene è già un messaggio educativo.
Bibliografia essenziale:
Paul Watzlawick et al., Pragmatica della comunicazione umana
Marshall Rosenberg, Le parole sono finestre (oppure muri)
Daniele Novara, Litigare fa bene
Franco Cambi, Pedagogia generale
Lev Vygotskij, Pensiero e linguaggio
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